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Centri storici svuotati. Spariti centomila negozi: il deserto in dieci anni. E sale l’allarme sicurezza

L’analisi di Confcommercio: «Il turismo la fa da padrone, è la vittoria delle città svago» Per gli acquisti si scelgono gli ipermercati di periferia o le piattaforme su Internet

«Rischio desertificazione», si allarmano i tecnici. «Mortalità di impresa», traducono i commercianti. «Vetrine vuote e serrande abbassate», paventano i cittadini. Ovunque: sguardi smarriti e cartelli «affittasi», in centri storici travolti da un’insidiosa demografia d’impresa. L’Italia post Covid fa i conti con le mutazioni del commercio. Nei salotti buoni delle città, quasi centomila negozi spariti in dieci anni. E tolte Milano, Roma, Napoli – realtà multicentriche che fanno storia a sé – emerge una travolgente omogeneità di problemi. Basta aprire la cartina e puntare il faro su qualsiasi capoluogo di regione o di provincia: fotografia sovrapponibile. Da Nord a Sud, la replica è ossessiva. 

Secondo la più recente indagine di Confcommercio, presentata quest’anno e basata sulle variazioni 2012-2022 in 120 città italiane, l’evoluzione è feroce. I primi otto settori complessivamente censiti segnano -19,4% in termine di «numerosità di punti vendita». Alimentare -7,6%, tabacchi -2,8%, mobili e ferramenta -30,5%, libri e giocattoli -31,5%, vestiari e calzature -21,8%, carburanti -38,5% precipitano su un piano inclinato. Male gli ambulanti (-19,8%). Si salvano solo farmacie (+12,6%), telefonia e computer (+10,8%). 

Ristorazione (+4%) e alloggi (+43%), favoriti dal boom degli affitti brevi, sono l’altro specchio della rivoluzione in corso nella maggior parte dei centri storici. È la vittoria delle «città svago» dove, per ragioni di mercato, redditività e servizi, i residenti si assottigliano, i visitatori aumentano e gli stessi lavoratori consumano in modo più selezionato (delivery e tecnologia, su tutti). Insomma, altre esigenze, altre vetrine. Ma il frenetico turnover delle insegne non basta a coprire i vuoti. L’affettuosa ma spaesata clientela ondeggia verso gli ipermercati di periferia o le superfici specializzate, oppure partecipa al rito onnivoro dell’acquisto online, fatalmente dominato dai maggiori player di settore. Un mercato sfidante: la riduzione della domanda ’fisica’ (soddisfatta dalle piattaforme multinazionali) supera infatti gli incrementi generati dall’attività online dei piccoli negozi calcolata in forma aggregata.

E se i centri storici si svuotano, la comunità si impoverisce, la sicurezza percepita diminuisce e il rischio criminalità si impenna. Perché, come ricorda Confcommercio, «è l’addensamento commerciale a fare ricco il territorio» e «la densità commerciale ridotta o decrescente sembra avere impatti rilevanti sul disagio sociale». È anche la perdita di genius loci a preoccupare. Perché se ad ogni insegna storica o artigiana si sostituisce un franchising o un brand internazionale, muore un pezzo di diversità italiana e ogni città diventa uguale all’altra. Efficiente e competitiva, ma con ridotta personalità. E in prospettiva, a maggior rischio di crisi o di avvitamento quando la ridondanza di cartoline sovrapponibili partorirà una nuova selezione con stretta finale al pluralismo distributivo. Un commercio dove a lato della grande distribuzione resistano solo minimarket e brand internazionali non sembra nell’interesse del Paese.

Così allarmi e proteste si moltiplicano. Il combinato disposto di caro affitti, caro energia e polarizzazione dell’offerta nei centri commerciali rappresenta una zavorra insostenibile. A Bologna, solo nel 2022, un negozio chiuso ogni 24 ore. A Modena, meno 137 esercizi in dieci anni. Ascom Forlì segnala centinaia di negozi sfitti (censimento 2023). Ravenna assorbe la chiusura di esercizi storici e rilancia sulla ristorazione; come Rimini, dove bar e negozi di abbigliamento si arrendono al nuovo corso. Monza rimarca come sia finita la corsa ad accaparrarsi un affaccio nella zona nobile. In nome della rigenerazione urbana Bergamo e Brescia assegnano un contributo a fondo perduto da mille a tremila euro ai negozianti del centro. Pistoia denuncia la sparizione di 213 attività in dieci anni (da 517 a 377). Nello stesso periodo Pisa dimezza gli ambulanti e perde il 29% di dettaglianti. La sparizione decennale di esercizi tra le mura dei cinque capoluoghi marchigiani segna una flessione media del 24%. E pressoché ovunque monta la stessa richiesta agli amministratori locali: per salvare il commercio nei centri storici bisogna ricreare un’atmosfera, combattere il degrado, investire in arredo urbano e agevolare i parcheggi. Perché, in tempo di sfide cruciali, anche tirare su la serranda ogni mattina può rivelarsi un atto politico.

Giovanni Rossi, Il Resto del Carlino – 15 maggio 2023

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