Le misure. Le amministrazioni in prima linea per contrastare gli effetti della liberalizzazione commerciale, tra tutela culturale e politiche di rigenerazione
Chiude l’ennesima saracinesca del centro storico; al suo posto, spunta l’ennesimo take away. È un unico destino, quello che accomuna le città turistiche: negozi di vicinato che vengono sostituiti da attività a rotazione veloce pensate per i turisti. Per i soli Comuni medio grandi i dati di Confcommercio parlano di quasi 31mila esercizi al dettaglio chiusi tra il 2012 e il 2024; un dato che sfiora i 118mila se si considera tutto il territorio nazionale.
Le amministrazioni locali si muovono come possono. Venezia fa leva sulle competenze in materia di tutela del patrimonio culturale e decoro urbano per introdurre limiti stringenti alle categorie merceologiche ammesse in determinate aree del centro storico.
Bologna utilizza le politiche di rigenerazione urbana tramite bandi per il recupero delle vetrine vuote. Bari punta su contributi a fondo perduto per le attività che si impegnano a migliorare il quartiere. Nel caso di Milano è stata rilevante l’azione di censimento e tutela delle botteghe storiche, presidi economici e sociali dei quartieri: il Comune ha istituito da tempo un proprio elenco di attività di tradizione, accompagnandolo a misure di sostegno e valorizzazione; un esempio ripreso da altre città— e poi inserito da varie Regioni nella legislazione locale — che ha infine portato alla costituzione di un Albo nazionale, entrato in vigore il 31 gennaio 2025.
Nel frattempo, Confcommercio ha lanciato il progetto Cities, che tramite attività di sostegno all’economia di prossimità (come partenariati o riqualificazioni) promuove una visione urbana in cui negozi e attività di vicinato diventano a tutti gli effetti attori civici e punti di riferimento delle comunità.
«Come confederazione abbiamo una cartina tornasole degli effetti dei sistemi normativi sulle singole città – spiega Francesca Stifano, direttore centrale Relazioni istituzionali e Servizi legislativi di Confcommercio —. È una questione multilivello che necessita di essere affrontata da più parti, non basta una singola disposizione locale. Servirebbe piuttosto un’agenda urbana nazionale, con una regia stabile e risorse pluriennali, come avviene in Francia o Germania, che includa sia le misure per l’abitare che le economie di prossimità».
In sostanza, servirebbe un modello che inglobi urbanistica, commercio e politiche sociali, per rimediare agli effetti della deregolamentazione partita con la riforma Bersani e rafforzata dal recepimento della direttiva europea 2006/123/Ce.
Nel corso degli anni, vista l’impossibilità dei Comuni di indirizzare l’offerta commerciale, il legislatore ha tentato di introdurre strumenti correttivi, come la possibilità per l’amministrazione comunale di limitare o subordinare le nuove aperture nelle aree di particolare valore culturale (Dlgs222/2016). Si tratta, tuttavia, di deroghe puntuali, che appesantiscono l’azione amministrativa ordinaria e aumentano il rischio di contenzioso.
Attualmente è all’esame della X Commissione alla Camera una proposta di legge sull’introduzione delle zone del commercio nei centri storici (A.C.362, con primo firmatario Molinari, Lega), nata in seguito all’esperienza di Venezia. La norma andrebbe a disciplinare il regime autorizzativo per l’esercizio delle attività ubicate in determinate aree, individuate dai Comuni, all’interno dei centri storici, superando in questo modo il vincolo della tutela culturale. Tuttavia, ha segnalato Anci durante le audizioni, servirà «coordinamento con le normative, per evitare sovrapposizioni ed incertezze in fase applicativa».
Margherita Ceci, Il Sole 24 Ore, 29 dicembre 2025