Sangalli: “Gli incentivi ai rinnovi sono un regalo ai pirati”

Il presidente di Confcommercio su La Stampa: “La detassazione non può riguardare solo i rinnovi firmati dal 2025. Deve valere anche per i contratti maggiormente rappresentativi già rinnovati nel 2024, anche solo per le tranches di aumenti che decorrono nel 2026”.

Nel mirino c’è l’articolo 4 della nuova legge di Bilancio. Il primo comma, quello che introduce la defiscalizzazione – la mini-Irpef come l’ha definita qualcuno – degli aumenti di stipendio corrisposti ai dipendenti del settore privato per effetto dei rinnovi contrattuali sottoscritti quest’anno ed il prossimo. In vista delle audizioni in Parlamento che iniziano oggi, con una maratona che vedrà sfilare 50 tra sigle e associazioni, ad aprire ufficialmente il fronte è il presidente di Confcommercio che boccia senza appello questa misura chiedendo al governo modifiche sostanziali.

Nella manovra c’è giustamente la volontà di rafforzare il potere di acquisto dei lavoratori e sostenere la domanda interna, ma i conseguenti provvedimenti appaiono insufficienti a dare un impulso significativo ai consumi” segnala Carlo Sangalli. A suo parere, infatti, “la detassazione non può riguardare solo i rinnovi firmati dal 2025. Deve valere anche per i contratti maggiormente rappresentativi già rinnovati nel 2024, anche solo per le tranches di aumenti che decorrono nel 2026, cioè quelli del terziario, del turismo e della ristorazione e diversi altri Ccnl del terziario di mercato. Una misura che interesserebbe in tutto 5 milioni di lavoratori e che costerebbe poco più di 150 milioni”, segnala Sangalli.

Per non creare disparità «inaccettabili» tra lavoratori che svolgono lo stesso lavoro ma ricevono trattamenti retributivi diversi solo per una data di firma, la proposta che avanza Confcommercio è quella “di applicare la misura in modo coerente e universale a tutti i rinnovi effettivi, senza distinzione di categoria, secondo i principi di equità e buon senso», scelta che “rafforzerebbe il valore dei contratti più rappresentativi ed il sistema delle relazioni sindacali che oggi vengono indebolite da ipotesi di salario minimo per legge e dai cosiddetti contratti pirata”.

Secondo le stime riportate dalla relazione tecnica il governo ritiene che possano essere circa 3,32 milioni i lavoratori del settore privato che potrebbero beneficiare della mini-Irpef. E ipotizzando un incremento di reddito medio su base annua di 680 euro per addetto, nel 2026 tra Irpef e addizionali si prevede una riduzione del gettito pari a 588 milioni di euro, un’imposta sostitutiva pari a 113 milioni ed un costo complessivo per lo Stato pari a 479,4 milioni di euro. Secondo Sangalli “la detassazione deve riguardare solo i contratti collettivi nazionali firmati dalle sigle comparativamente più rappresentative, quelle che rappresentano realmente lavoratori e imprese – insiste – e deve valorizzare senza ambiguità i principi di correttezza, trasparenza e legalità, oggi unicamente garantiti dai contratti collettivi nazionali firmati dalle sigle comparativamente più rappresentative. E un principio di correttezza ma anche un segnale di legalità rispetto al fenomeno del dumping contrattuale”.

Questo perché, come segnala Confcommercio, in Italia abbiamo oltre 250 contratti nel solo terziario e, di questi, più di 200 sono “pirata”: siglati da sigle spurie, con salari più bassi, meno tutele, niente welfare. Si tratta di contratti non prevedono la quattordicesimamensilità, ferie e permessi sono ridotti o assenti, malattie e infortuni hanno una copertura molto limitata e non c’è traccia di strumenti di welfare come sanità integrativa, previdenza complementare, formazione. «Senza dimenticare il gap salariale che vede, in media un lavoratore soggetto a tali contratti “pirata” perde circa 8 mila euro l’anno rispetto al Ccnl di Confcommercio, cifra che peri lavoratori più sfortunati può arrivare ad oltre 12 mila euro — aggiunge Sangalli -. Insomma, è un vero e proprio dumping salariale e normativo, una concorrenza sleale che penalizza le imprese corrette e distorce il mercato». E, dato non secondario, è un fenomeno (che tutti a parole dicono di voler contrastare) che ogni anno fa perdere allo Stato circa 550 milioni di euro di mancare entrate contributive e previdenziali.

P. BAR.La Stampa 3 novembre 2025

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