Lo scrittore-chef presenta nel Chiostro l’ultimo giallo. «Sotto i portici è facile costruire un immaginario di buio»
Lo spezzatino di vitello di Maigret, gli arancini di Montalbano, il pudding di Poirot, le torte di miss Marple… Da sempre c’è un filo rosso che collega i grandi investigatori al cibo. «Perché – dice Filippo Venturi– il cibo umanizza il carattere dei personaggi, li definisce». Non tutti si accontentano di sedere soltanto a tavola. Gourmet per gourmet, spopolano da tempo gli chef-detective, dal Pepe Carvalho di Montalban al Caleb Roony di Patterson, solo per citarne alcuni. A Bologna Emilio Zucchini, cuoco di una trattoria del centro, è già alla sua quarta avventura. Lo ha inventato una decina di anni fa un collega (ristoratore per davvero), appunto Venturi, che in lui ha immesso quelle caratteristiche (senso di libertà accompagnato all’ansia, perspicacia accoppiata alla capacità di ascolto) che lo hanno fatto subito amare al pubblico dei lettori. Oggi, alle 19 al convento Santa Margherita, nell’ambito della rassegna Parole nel chiostro, lo scrittore-chef presenta il suo nuovo romanzo Il delitto della finestrella (Mondadori): con lui dialoga Giuditta Bonfiglioli. La finestrella in questione è ovviamente quella di via Piella, uno dei luoghi adesso più ‘istagrammati’ della città. Succede che lì venga ritrovato il corpo di un ragazzo scaraventato chissà da chi nel canale sottostante. La polizia un’idea ce l’ha ma questa non combacia con l’intuizione di Emilio che (guarda caso proprio come il suo papà letterario) ha la trattoria lì nei pressi. È la quarta storia di questo ‘investigatore per caso’, dicevamo. Gli altri titoli? Il tortellino muore in brodo, Gli spaghetti alla bolognese non esistono, E’ l’umido che ammazza.
Venturi, come si è scoperto scrittore dietro i fornelli?
«Da ragazzo non coltivavo alcun talento per la scrittura né immaginavo di averne. Poi, in maniera anche sorprendente, ho sentito la necessità di affidarmi ai ricordi e di raccontare storie. Zucchini di certo sono io, anche se questa identificazione era vera soprattutto agli inizi. Ho letto molto, soprattutto gli autori internazionali di crime, a partire da Don Winslow e Joe Lansdale. Fra gli italiani amavo Faletti e mi piace Robecchi».
Che Bologna esce dalle sue narrazioni?
«La città di oggi, quella che da grande paese si è trasformata in piccola metropoli e che in alcuni punti conserva la fisionomia di secoli fa. Racconto la vita notturna del Pratello che io definisco una sorta di respiro trattenuto fra il folklore e il degrado e che trovo una roccaforte della tolleranza e dell’inclusione in una società chiusa e impaurita come la nostra. Quando ero bambino vedevo dal mio giardino il circolo del Gran Pavese».
Pensa di appartenere alla scuola bolognese del giallo?
«Non mi permetto di immaginarmi in compagnia di maestri come Lucarelli o Macchiavelli. Il mio oste parla di cucina ed è già tanto in un luogo dove tutti hanno avuto come nonna la miglior cuoca del mondo. Certo, in una città ricca di portici è facile costruire un immaginario fatto di buio e di paura ma quei portici servono anche a proteggerci».
Da ristoratore cosa pensa delle polemiche contro i taglieri per turisti?
«Sono accuse inconcepibili per una generazione come la mia cresciuta con la rosetta ripiena di mortadella. Mi sembra un luogo comune in una realtà in forte evoluzione, anche grazie al turismo. Quando in trattoria gli stranieri mi chiedono dov’è la piccola Venezia capisco che la finestrella è diventata la star perfetta del nostro tempo»
Claudio Cumani, Il Resto del Carlino – 9 luglio 2024
Minichino (Ascom): “Il gioco di squadra ha creato un centro storico scintillante”. D’Auria (Pro Loco): “Una corrispondenza d’intenti che incentiva il turismo”