Quell’istante in cui il Paese è rinato. Con questa vittoria tutto il popolo ha sentito che può rialzare la testa dopo un anno e mezzo di pandemia
Siamo felici, abbiamo titolato ieri. Siamo felici sono le prime parole pronunciate da Roberto Mancini dopo la fine della partita. È la prima notte italiana di felicità dall’8 marzo dell’anno passato, quando Giuseppe Conte, sempre di notte, ci disse che dovevamo chiuderci in casa. Da allora abbiamo avuto tanti morti, tanta paura e qualcuno anche tanta miseria. Non sempre una partita di calcio è solo una partita di calcio. Ieri sera, quando Donnarumma ha parato l’ultimo rigore, è come se ci fossimo liberati di un peso. Ed è come se tutto un popolo abbia sentito di poter finalmente rialzare la testa.
Altre volte avevamo riempito le piazze per festeggiare una vittoria della nostra Nazionale. Ma mai così, credo. Intanto – appunto – per il lungo periodo di compressione che ha preceduto la festa. E poi per come è arrivata la vittoria. Per il modo. Per l’audacia. Gli azzurri hanno vinto in casa dei loro sfidanti, e questa casa è nientemeno che un tempio, anzi è il tempio: Wembley. Gli inglesi avevano distribuito i biglietti in modo prepotente: novanta per cento a loro e il resto a noi, più o meno. Da giorni e giorni i loro giocatori, i loro politici, i loro tifosi vip e i loro giornalisti parlavano della finale come si parla di una formalità: da una parte loro, i maestri del football, e dunque predestinati; dall’altra gli orfanelli azzurri. Tutto era apparecchiato per la festa: e chi saranno mai questi italiani, per portar via una coppa da Londra. E invece gli italiani non solo hanno vinto, ma hanno anche rovesciato tutti i luoghi comuni che da sempre pesano su di noi. Negli anni Sessanta e Settanta forse sì che si vinceva di furbizia, difendendo e colpendo in contropiede come predicava il grande Gianni Brera. Ma domenica sera no, domenica sera – a parte i primi venti minuti – in campo c’è stata una squadra sola: gli italiani hanno fatto gli inglesi e anche i tedeschi, dominando, attaccando, cercando sempre la vittoria, fino all’ultimo dei supplementari. Erano gli inglesi, semmai, a recitare il Padova di Rocco degli anni Cinquanta: visti palloni scaraventati in tribuna già dai primi istanti dopo il loro gol del vantaggio. Guardate che non si sta qui parlando di calcio, ma del carattere di un popolo. Anche il fatto che si sia vinto ai rigori (e per due partite di fila!) smentisce la leggenda nera degli italiani cacasotto. Le gambe, al momento di calciare dal dischetto, tremavano agli spocchiosi padroni di casa, non ai nostri. E poi anche il dopopartita. Dov’è finito il fair play britannico? Il nostro Berrettini, sconfitto poche ore prima nella finale di Wimbledon, aveva accettato il verdetto, partecipato alla premiazione, sorriso, stretto la mano al vincitore. I nazionali inglesi invece hanno perfin rifiutato la medaglia d’argento, sfilandosela di dosso in segno di schifo. E dei rappresentanti delle istituzioni presenti in tribuna, chi è sceso a complimentarsi con i vincitori? Chi è andato a fare gli onori di casa? Nessuno: né i reali, né BoJo il premier. Che brutta figura hanno fatto gli inglesi (anche per le violenze fuori dallo stadio). E che magnifica figura hanno fatto i nostri. Ecco perché la vittoria di Wembley è forse la più importante che si ricordi. Ci ha fatto sentire felici, orgogliosi di essere italiani. E orgogliosi pure di essere stati noi a rappresentare, in quel contesto non proprio amico, l’Europa. Un’ultima cosa voglio però dire, su questa nostra prima notte di felicità dopo il Covid. Domenica verso mezzanotte, qui al giornale, avevamo inizialmente messo in prima pagina la foto che poi è in effetti uscita: cioè quella della pazza corsa degli azzurri, dopo l’ultimo rigore, ad abbracciare l’eroe Donnarumma. Poi è arrivata la foto canonica: la squadra e il mister a centrocampo, sul podio, mentre alzano il trofeo. «Mettiamo questa», s’è dunque pensato, «c’è la coppa». Ma poi abbiamo deciso di mantenere la prima. Perché la seconda, quella che ferma il momento in cui s’è alzata la coppa, è stata scattata almeno quindici, venti minuti dopo il fischio finale. È la felicità sta in un attimo. Dopo – e bastano davvero solo pochi minuti – si è sì ancora contenti, certo: ma in fondo già un po’ meno, perché si comincia ad avvertire quel qualcosa già meno forte di prima. Succede così in tutto. È la nostra natura. Ma l’istante dell’esplosione di gioia, e del grappolo di azzurri sulle spalle del nostro gigantesco portiere, resterà a ricordarci una notte finalmente felice, ringraziando l’Onnipotente di averci fatti nascere italiani.
Michele Barmbilla, Qn – Il Resto del Carlino, 13 luglio 2021
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