Milioni di aziende non sanno cosa accadrà il 7 gennaio. «Indennizzi insufficienti, il governo tedesco copre il 75% degli introiti persi»
«Ci aspettiamo di poter riaprire e ripartire. E se per questo serve rafforzare i protocolli di sicurezza, che ce lo dicano per tempo e lo facciamo, ma basta incertezze, mille dpcm e decisioni prese all’ultimo minuto. Non siamo interruttori che si possono accendere e spegnere da un momento all’altro». È netto e deciso Lino Stoppani, presidente della Fipe (ristoranti, bar pubblici esercizi) e vice-presidente vicario di Confcommercio. Ma il suo appello è più che altro il grido di dolore di una categoria che, insieme con quella degli albergatori e gli operatori turistici, ha pagato il prezzo più alto dell’emergenza Coronavirus senza ricevere adeguati e proporzionati ristori.
Un grido che, almeno per ora, non trova risposte coerenti da parte del governo, se consideriamo che a otto giorni dalla fine delle chiusure fissate per il Natale e il Capodanno, milioni di imprese e di lavoratori autonomi non sanno che cosa accadrà dal 7 gennaio in avanti. L’ipotesi più gettonata è quella di un ritorno al meccanismo delle regioni con colori variabili, ma non c’è un’indicazione univoca in questo senso. E la differenza è notevole: stare in zona rossa o arancione significa per un bar o un ristorante essere chiusi completamente salvo delivery e asporto, mentre stare in zona gialla permette almeno di stare aperti fino alle 18 del pomeriggio, il che salva una quota del fatturato.
«La parola chiave – spiega Stoppani – è innanzitutto programmazione: dobbiamo essere messi nelle condizioni di decidere per tempo come operare senza arrivare all’ultimo momento e subire decisioni spesso incomprensibili. Prendiamo il caso dei protocolli di sicurezza: li abbiamo definiti e applicati secondo le linee guida fissate dal Ministero della Salute al punto che su 68 milioni di ispezioni solo lo 0,18 per cento dei pubblici esercizi è risultato non in regola. Insomma, abbiamo fatto tutto quello che ci è stato chiesto al massimo livello. Eppure, ci hanno chiuso».
Ma anche in Europa ristoranti e bar sono stati bloccati. Anzi, in Germania e Francia le chiusure sono state complete a partire da novembre e fino a gennaio. Salvo delivery e asporto. È vero, osserva Stoppani, però in Germania gli indennizzi per i fatturati persi hanno raggiunto il 75 per cento e in Francia siamo su livelli di poco più bassi. Senza tenere conto che il governo francese ha proclamato il 2021 «anno della gastronomia» mettendo in campo una quantità notevole di risorse per il rilancio del settore. Da noi non solo siamo all’anno zero in termini di investimento per il futuro di turismo e ospitalità, ma i conti non tornano neanche per quel che riguarda i contributi a fondo perduto: i ristori coprono poco o niente del fatturato andato in fumo, perché non si va oltre il 20 per cento delle entrate perdute.
E, infatti, secondo una simulazione della Fipe-Confcommercio per Qn, un bar in zona gialla con un fatturato 2019 da 200 mila euro subisce un calo nell’anno in corso di oltre 48mila euro, mentre il ristoro complessivo è di poco sopra gli 8 mila euro (10 mila in zona rossa con chiusura totale).
Comunque, a sentire i diretti interessati, la cosa principale che è mancata e che manca è proprio un orientamento netto sul futuro immediato: e il risultato è che, a poco più di una settimana del 7 gennaio, milioni di imprese della ristorazione e dei pubblici esercizi non sanno che cosa accadrà e, dunque, non possono programmare acquisti o rientro in servizio del personale.
Claudia Marin, Qn- Roma, 30 dicembre 2020
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